Intervista ad Anna Foa

In occasione del Giorno della Memoria tornano alla mente parole udite in passato, annotate su un foglietto nella calura estiva. Una bella chiacchierata tra me e la Professoressa Foa, nel suo grande soggiorno ricco di libri. Una chiacchierata che era destinata ad essere trascritta nelle pagine di Tassocrazia, il giornale scolastico, ma mai pubblicata. Mi è ricapitata tra le mani in questi giorni e, vista anche l’occasione, mi pare giusto condividere qui le riflessioni emerse quel caldo pomeriggio di due anni fa.

Secondo lei la Memoria può essere definita “Viaggio”? Tramite quali mezzi si può compiere?
DSC01859Immagino che qui ti riferisca ai viaggi ad Auschwitz in particolare, cioè ad un vero e proprio viaggio.
Il termine viaggio può avere un’accezione metaforica, indicare il viaggio nel passato, il viaggio nella mente, il viaggio attraverso i sapori. Ricordiamo Proust che sente le madeleine e quindi ricorda il viaggio nell’infanzia.
La memoria si costruisce, in qualche modo, come un viaggio, raccogliendone il suo significato metaforico, ma, come tale, è anche un percorso costruito perché si sceglie cosa ricordare. Non si può ricordare tutto altrimenti poi si finirebbe come in quel famoso racconto di Borges in cui il protagonista non riesce mai a dimenticare niente e ha tutta una serie di ricordi accumulati, dai più banali ai più importanti, perdendo la rilevanza degli avvenimenti.
La memoria è un viaggio costruito in quanto si costruiscono le rilevanze e si finisce per dimenticare naturalmente alcune cose o perché sono molto simili ad altre o perché non hanno importanza. Questo vale sia per la memoria individuale che per quella collettiva.
Io, in ogni caso, non esaurirei la memoria nei viaggi materiali, fisici. Nel senso che certamente un viaggio ad Auschwitz è un momento importante, però risolvere tutto con il viaggio ad Auschwitz e pensare poi di avere messo i giovani di fronte alla Shoah… è un altro conto.
Ci sono altre mille cose, poi, volendo: ci sarebbe da parlare dei ghetti polacchi, di come si è messo in moto questo meccanismo. Io credo che accanto alla Memoria ci debba essere la Storia. Se pensiamo di risolvere un pezzo della nostra Storia, quale la Shoah, solo con la Memoria proprio perché è un pezzo indicibile o perché pensiamo che sia indicibile ci sbagliamo. Se non racconteremo la Storia, se non troveremo la Storia, questa cosa finirà per essere mitologica, in un senso o nell’altro.

Che consigli darebbe a una scuola come la nostra per una fruttuosa celebrazione della memoria?
Io la farei precedere da un attento studio, senza separare questo studio dalla storia o dalla letteratura.
C’è Primo Levi che sta diventando sempre più un grande scrittore europeo del ‘900. Non è più solo un’espressione della memoria ma è uno dei più grandi letterati del ‘900.
Io farei precedere la giornata da un intenso studio che del resto va in direzione dello studio del ‘900. Dopo di chè porrei anche i problemi memoriali attraverso la spiegazione storica di come è stata costruita la memoria. Bisogna considerare anche l’importanza della storia della costruzione della Memoria.
Le costruzioni della Memoria non hanno mai lo stesso percorso, quello dello Shoah è stato molto particolare.
Va contestualizzata: come è nata? Con quali problemi è nata?
Per esempio uno storico di oggi David Bidussa sostiene che la Giornata della Memoria in Europa sia la risposta europea ad un altro genocidio che è stato lasciato compiere in europa: quello di Srebrenica. Cioè di fronte al trauma di un genocidio compiuto nei territori europei l’Europa avrebbe sentito il bisogno di riaffannarsi alla costruzione di una data memoriale. Questa è una cosa interessante che fra l’altro collega la Shoah con altre forme di genocidio e va tenuta presente.
Quando si è fatto un percorso di approfondimento storico si arriva alla memoria e si arriva anche ai bisogni etici, si possono leggere i filosofi, leggere quelli che hanno parlato dell’argomento e da lì si può partire per un discorso che apra alla necessità della memoria.

Quale era il grado di integrazione degli ebrei nella società italiana soprattutto durante il pontificato di Leone XIII e di Pio XI?
Il grado di integrazione era assolutamente totale, forse un po’ meno a Roma, ma per motivi sociali: erano i più poveri, erano usciti più tardi dal ghetto, non avevano ancora raggiunto il passaggio alle professioni liberali che era tipico invece degli ebrei della borghesia delle altre città: Torino, Milano, Venezia, Trieste. Il grado di integrazione era alto. Gli ebrei erano cittadini italiani, si sentivano come gli altri.

Quali sono state le prime reazioni degli italiani, soprattutto romani, dopo l’introduzione delle Leggi Razziali del 1938?
La cosa tragica è che non ci sono state reazioni. Non dobbiamo dimenticare che vivevamo in un paese dittatoriale in cui qualsiasi espressione della libertà di pensiero veniva repressa con tribunali speciali o con provvedimenti della polizia. Gli italiani non hanno reagito alle leggi razziali, le hanno sostanzialmente accettate. Le Leggi sono state precedute da un’intensa campagna di propaganda tesa a suscitare negli italiani quell’antisemitismo che ancora faceva loro qualche modo difetto, sono poi apparse come una volontà improvvisa che gli stessi ebrei hanno detto “passeranno”. Sono state pochissime le reazioni. Sono state approvate da quella parvenza di Senato, senza quasi reazioni. Croce non c’è andato. Gli italiani non potevano reagire, non avevano i mezzi.
Non era un paese in cui c’era un Parlamento che si riuniva e votava contro o in cui c’era una stampa libera. L’unico giornale libero era l’Osservatore Romano, comprato con grande entusiasmo perché poteva dire cose che non erano nelle linee del regime. Bisogna pensare comunque alla dittatura. All’interno della dittatura l’atteggiamento degli italiani è stato conformista, dire antisemita non ha senso.
Nessuno storico si è posto la domanda se 5, 6 anni di campagna antisemita abbiano avuto un influsso duraturo sulla società italiana. Cosa è rimasto di questo veleno diffuso?

Nella Resistenza c’è stata collaborazione tra antifascisti, laici, ebrei e cattolici. Cosa ha portato a questo superamento di pregiudizi?
Non c’erano pregiudizi. Forse quello più grosso era tra i cattolici e i comunisti delle brigate Garibaldi. Gli ebrei non hanno incontrato nella resistenza italiana (diverso è il caso della Polonia, poichè c’era un antisemitismo diffuso nella popolazione) pregiudizi. Quelli della resistenza erano coloro che non vedevano il fascismo di buon occhio. Alcuni hanno cambiato idea, certo, ma la maggior parte dei leader della resistenza erano già in principio antifascisti. Molti dei partigiani comuni erano ex soldati che per evitare di essere mandati in Germania si erano buttati alla macchia e avevano dato vita alla resistenza. Proprio perché questi anni di pregiudizi non erano secolari, proprio perché gli ebrei facevano parte della cittadinanza, era più difficile. Si avevano pregiudizi che derivassero da questioni ideologiche soprattutto alla fine.

Una riflessione sul rapporto tra realtà, identità e immagine dell’ebraicità e dell’ebraismo oggi?
Inizio con un racconto. Quando io 20 anni fa collaborai ad un filmato del ministero della pubblica istruzione “Chi sono gli ebrei?” avevamo difficoltà a girare il film perché gli ebrei sono uguali agli altri cittadini. Alla fine vennero fuori molte cose filmate in Israele, con gli ebrei ultraortodossi per poter dare una differenziazione.
Diciamo subito che l’identità ebraica non si esaurisce nella religione ebraica. Chi è ebreo e come ci si identifica? Certo ci sono coloro nati da madre ebrea o convertiti, però quando uno non è religioso con cosa si identifica? L’appartenenza di ogni ebreo al popolo ebraico. L’idea di terra e di popolo.
Gli altri che vivono tranquilli nella diaspora? Non ho una risposta.
Non l’aveva nemmeno Freud quando poco prima del 1940 scrisse la prefazione all’edizione in ebraico di “Totem e Tabù”.
“Non sono religioso, non sono sionista. Non so bene cosa sia questo l’ebraismo, non riesco a dargli identità.”
Alcuni hanno detto che il legame sia con la storia, il passato comune.
Freud dice: “Io non lo so, eppure so che non ci rinuncerei per niente al mondo.”
Freud era anche uno scienziato.
“Fra qualche anno, qualche secolo, si avrà una risposta scientifica, io, per ora, non lo so.”

Una riflessione sul rapporto tra ebraismo religioso e laico. In Italia, in Europa (soprattutto in Francia), in Israele, negli USA. Quali sono in particolare i nodi cruciali di questo rapporto al livello dei mass-media e dell’informazione?
Un conto in Israele, un conto nella diaspora.
Nella diaspora non direi che ci sia una particolare tensione tra ebrei religiosi ed ebrei laici (almeno in Italia).
Gli ebrei religiosi non pensano di dover dettare le regole dello Stato, quindi ci sono semplicemente ebrei che osservano più degli altri o osservano, mentre gli altri non osservano le leggi ebraiche. Io per esempio non sono religiosa, altrimenti oggi che è sabato non sarei qui a fare un’intervista. Queste sono difficoltà di comportamento.
In genere anche gli ebrei laici 2-3 volte l’anno, nelle feste più grandi, vanno in sinagoga e cercano di sentire un senso di appartenenza, altri non lo fanno nemmeno e si rifiutano di farlo.
In ogni modo nei paesi europei non c’è uno scontro tra religiosi e laici.
Ci sono varie gradazioni di religione, di appartenenza religiosa di osservanza, varie gradazioni di laicità.
C’è il laico, come gli anticlericali nel mondo non ebraico, che si scaglia contro i rabbini e che rifiuta qualunque forma, però bisogna vedere se poi dentro non senta comunque una qualche appartenenza.
Nel mondo israeliano è molto diverso perché lì c’è una società in cui gli ultraortodossi e gli ortodossi cercano di far passare alcune linee nelle leggi dello Stato e in cui c’è una spaccatura fortissima. Lungo discorso che da sè meriterebbe tutto quanto il tempo dell’intervista. C’è ovviamente un forte senso di reazione contro i religiosi. Adesso per esempio c’è tutto il dibattito se i religiosi debbano non fare il servizio militare, cui i laici insistono fortemente perchè per loro è obbligatorio. Quindi c’è questo scontro.
In genere gli studenti delle scuole talmudiche, quelli che dai 16 anni in poi sono chiusi nelle scuole talmudiche, sono esonerati dal servizio militare perché studiano la parola di Dio. Era una sorta di concessione. All’inizio da fondazione dello Stato Ben-Gurion, che era assolutamente ateo, pensò che la cosa non avesse molta importanza che man a mano il problema religioso si sarebbe estinto. In realtà non solo non si è estinto, ma si è accentuato.

Sempre a questo proposito, con particolare riferimento al mondo dell’economia, della finanza, e al ruolo della politica e dell’etica, come valuta il recente contributo del Rabbino capo del Commonwealth Jonathan Sacks sul dovere di ritrovare un’anima all’Europa?
Mi sembra molto importante. Era un intervento molto bello, molto importante, che un rabbino si occupi non soltanto dell’osservanza esterna, o del grado di religiosità, ma anche dell’etica. Qualcosa che possa riconciliare anche i laici con le esigenze rabbiniche.

Recentemente abbiamo parlato con lacuni esponenti del mondo dell’ebraismo riformato. Dalla nostra intervista è emerso soprattutto che l’ebraismo riformato avesse delle posizioni più aperte riguardo a questioni spinose per le religioni in generale: donne, omosessualità…
L’ebraismo riformato nasce nell’ottocento in Germania e, poi, si afferma molto in America perché, quando nel 1848 molti rabbini partecipano alla rivoluzione tedesca, vanno in esilio politico in America. Da lì nasce questa presenza ebraica della riforma.
I rapporti: gli ortodossi non riconoscono i matrimoni e le conversioni dei riformati. Li considerano come troppo morbidi.
In realtà i  riformati hanno molte novità: il culto comune senza divisione tra uomini e donne, l’accesso delle donne al rabbinato e l’accettazione dell’omosessualità. Ci sono molte congregazioni e sinagoghe gay, poichè nascono dal basso. Si associano, si uniscono e la formano.
Adesso anche in Italia inizia ad affacciarsi una forma: c’è una sinagoga riformata e dei centri di pensiero riformato. In Italia l’ebraismo ortodosso è molto più affermato, seppur molto più morbido di quanto non sia in Israele o negli Stati Uniti. È una via moderata però la maggior parte delle comunità italiane si riconoscono nelle ortodossi. Tuttora le donne assistono le preghiere divise dagli uomini e questo allontana per esempio molte donne dalla pratica religiosa.

Non c’è nessuna spinta dalla parte femminile?
Semplicemente ci si allontana. Io stessa non vado più in sinagoga, perché non mi va di andare in cima. Non sento niente e non ha senso.
In Italia non c’è una lotta interna. Ogni tanto c’è qualche polemica. Ultimamente una mia collega di Tor Vergata aveva scritto una lettera chiedendo perché durante un’occasione non religiosa le donne fossero state separate. Ma lì si è fermata la questione.

La Tradizione continua ad avere una forte influenza, quindi.
L’ebraismo italiano è molto piccolo e la Tradizione molto forte. La proporzione è 1/1500. Ci sono pochi ebrei. I numeri, in generale, sono molto stabili. L’ebraismo italiano non ha conosciuto grandi variazioni numeriche.

Laura Cardinale

Credits DT Author Box

Scritto da Laura Cardinale

Scrive da quando è piccola, ha patecipato a vari concorsi e ha pubblicato i suoi articoli su varie riviste (Almanacco CNR, Sole24Ore, Tempo). Ha diretto per due anni il giornale scolastico del Liceo Tasso “Tassocrazia”. La Storia è da sempre la sua grande passione.

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