Intervista a Felice Vinci

Quando ho lasciato il Liceo Tasso e, di conseguenza, la redazione scolastica, credevo che per un lungo periodo mi sarebbe stato davvero impossibile proseguire con le interviste che mi avevano accompagnato per i due anni di direzione. Approfondire delle tematiche, confrontarsi con delle personalità… adoravo quei momenti di incontro!
La notizia della possibilità di parlare con Felice Vinci, autore di “Omero nel Baltico”, è giunta all’improvviso, quasi per caso. Una vera soddisfazione! Appena avuta la conferma che l’incontro sarebbe avvenuto sono andata a recuperare la mia copia del libro, giusto per fissare le molte domande che mi frullavano in testa.DSC08455bis

La prima volta che sentii parlare del testo di Vinci ero in quarto ginnasio. Una ragazzina sperduta all’interno del mondo liceale, incuriosita dagli studi di quel passato antico e mitico, così ricco tutt’oggi di misteri e teorie. Durante una lezione di epica relativa all’Iliade e l’Odissea la Professoressa chiarì tutti i punti di vista degli studiosi sulla “Questione Omerica” poi, si fermò un attimo e, quasi parlando tra sè e sè, nominò il testo di questo studioso che si è posto una domanda interessante: “Perchè l’attuale topografia greca, non corrisponde con quella descritta nei poemi?”

Perchè, come sostiene il Dott. Vinci, non sono ambientati in Grecia, bensì nei paesi del Nord Europa.

La teoria è che gli Achei siano vissuti agli inizi del II millennio a. C. sulle coste del Baltico e alla metà del millennio, in seguito ad un irrigidimento del clima, si siano spostati verso sud. I nuovi venuti avrebbero fondato le città micenee  e avrebbero quindi dato alle nuovi sedi i nomi delle località nordiche, ma in modo non perfettamente rispondente alla loro collocazione geografica originaria, a causa delle differenze di conformazione delle due regioni. Con la migrazione avrebbero inoltre portato con sé i propri tradizionali racconti orali, una saga poetica ambientata nelle località della patria originaria.

Si capisce bene come tali idee siano rimaste impresse nella mente di una ragazza agli inizi dei suoi studi. Per tutti e cinque gli anni, ho approfondito tali argomentazioni e ho accumulato, pian piano, le molte domande, nella speranza di poter avere un attimo di confronto, un giorno.

Quando ci siamo incontrati, avendo molto tempo a disposizione, ho avuto modo di discutere con lui dei suoi studi, delle novità relative ai suoi progetti, del suo passato e della sua passione per i poemi epici. La prima domanda, è sorta spontaneamente:

Da dove nasce questa sua passione?
Per rispondere tocca risalire alla storia della mia vita! (Ride)
Quando avevo sette anni la maestra della terza elementare mi regalò un libro fantastico, “Storie della Storia del Mondo” di Laura Orvieto, in cui veniva narrata la Guerra di Troia ai bambini. Il testo mi catturò completamente, per me Ettore e Achille erano come Topolino e Paperino, leggervo i fumetti e questo libro con la stessa familiarità.
Anche la scuola ha avuto la sua influenza. Ricordo una grande insegnate del ginnasio (anche il Dott. Vinci ha frequentato il Liceo Tasso n.d.r.), anche lei a sua volta allieva e poi docente, che teneva le lezioni di greco. Talvolta quando si era alla quinta ora ci leggeva dei brani tratti da “Civiltà Sepolte” e lei stessa preferiva la parte dedicata alla storia di Schliemann (studioso, scopritore della probabile città di Troia n.d.r.). Quindi è sicuramente grazie a questa mia formazione, sin dall’infanzia, che si può far risalire il mio interesse per il mondo epico.

Si potrebbe quasi far notare una certa somiglianza tra lei e Schliemann. Anche lui nella sua autobiografia parla di un libro regalatogli quando era piccolo, ha compiuto un cammino in un altro settore completamente diverso per poi ritrovarsi a compiere scavi archeologici (Schliemann era un mercante, Felice Vinci ing. nucleare).
In qualsiasi cosa di questo genere, se non vi è una forte passione che motivi e spinga a proseguire, è difficile che si concluda qualcosadi concreto. Devono esserci delle forti motivazioni che portino a sacrificare qualcosa per poter perseguire i proprio ideali.

Cosa la ha indotta ad intraprendere questa ricerca?
E’ stato un dato di fatto, ossia l’entità delle discrepanze geografiche del mondo omerico rispetto a quello mediterraneo, sin dai tempi antichi sbrigativamente liquidate con la famosa frase “Omero è un poeta e non un geografo”, che peraltro mal si concilia con la rimarchevole coerenza interna della geografia omerica. D’altronde già nel II secolo a.C. un grande studioso dell’antichità, Cratete di Mallo, ipotizzava una collocazione nordico-artica delle avventure di Ulisse (che anche Strabone collocava nell’oceano Atlantico).

Nel suo libro dice che lo spunto è nato da un passo del De facie quae in orbe lunae apparet di Plutarco. In che modo è entrato in contatto con il testo?
Allorché seppi che nel 1991 era uscita una nuova traduzione, me la procurai subito, in quanto si tratta di un’opera assai importante nella storia della scienza: sembra infatti che Copernico e Newton abbiano tratto ispirazione da alcuni passi in esso contenuti per costruire le loro teorie sull’eliocentrismo e, rispettivamente, sulla gravitazione, che sono alla base della scienza moderna. E’ un discorso affascinante, su cui mi soffermo alla fine del mio libro, in cui riporto anche certe affermazioni di Plutarco riguardo a quella che molti secoli dopo Newton avrebbe chiamato forza di gravità (che ho ritradotto personalmente dal greco e che, rilette dopo quasi duemila anni, appaiono di una stupefacente, direi quasi profetica, lucidità). A questo punto, l’affermazione chiave del De facie che l’isola Ogigia si trova nell’Atlantico del nord mi ha spinto a cercare di localizzarla in quell’inedito contesto (effettivamente si tratta di una delle Faroer) e, successivamente, a ripercorrere la rotta della zattera di Ulisse da Ogigia alla Scheria nel suo lunghissimo nonché periglioso viaggio non-stop in direzione est, verso la terra dei Feaci, situata sulla costa meridionale della Norvegia, dove si trovano straordinarie conferme di tutte le indicazioni dell’Odissea (non solo geografiche: ad esempio, il timore, ripetutamente espresso dai Feaci, che l’ira di Poseidone li avrebbe seppelliti sotto una montagna, ha un inaspettato riscontro proprio in quell’area, dove gli archeologi hanno recentemente riportato alla luce un arcaico abitato preistorico, da essi significativamente ribattezzato “mini-Pompei”, che fu sepolto millenni fa da un’enorme duna di sabbia spostata dal vento, presumibilmente durante una tempesta marina).

Vengono spesso nominate le ricerche di Plutarco (46 – 125 d.C) e Strabone (60 a.C – 23 d.C). Mentre il primo fornisce un’esatta collocazione di Ogigia, l’altro non riesce a cogliere gli aspetti della geografia omerica. Possibile che in quel lasso di tempo che li separa siano stati ritrovati testi da noi oggi non pervenuti, su cui si basa la teoria di Plutarco?
Se la collocazione di Ogigia nel nord Atlantico fosse stata una mera fantasia di Plutarco, non saremmo arrivati da nessuna parte; sta di fatto invece che, partendo proprio da lì, si ritrova la localizzazione originaria del mondo omerico nel nord dell’Europa – dotata di una fortissima coerenza geografica, climatica, morfologica e descrittiva, del tutto assente nel tradizionale contesto mediterraneo – e ciò rappresenta una prova decisiva a posteriori della validità dell’indicazione plutarchea. D’altronde, un accenno ad un “Ulisse nel nord”, in chiave più di antica memoria che di mera ipotesi letteraria, lo troviamo anche in Tacito: “Alcuni credono che anche Ulisse nel suo lungo e leggendario peregrinare sia giunto in questo Oceano e sia approdato alle terre della Germania” (Germania, 3, 2). Anche Tacito non cita le sue fonti; tuttavia il fatto che egli fosse pressoché contemporaneo di Plutarco ci dà lo spunto per fare qualche ipotesi. Entrambi infatti vissero a cavallo tra il I e il II secolo d.C., allorché la maggior parte della Gran Bretagna, oltre che la Gallia, era ormai sotto il dominio romano.
Pertanto è ragionevole supporre che leggende e racconti tramandati dai bardi locali di generazione in generazione, in condizioni ottimali per la loro conservazione attraverso i secoli proprio grazie all’insularità della regione, stessero ormai filtrando anche tra i conquistatori. Insomma le fonti delle notizie sull’“Ulisse nordico” e su Ogigia potrebbero essere riconducibili al mondo celtico, e particolarmente a quello insulare, con la sua lunghissima tradizione orale di matrice druidica, che la stessa dimensione isolana ha probabilmente contribuito a preservare.
D’altronde, è proprio nel racconto di Plutarco che troviamo un fugace, ma illuminante, accenno ad una fonte di questo tipo, allorché, subito dopo aver indicato la posizione di Ogigia e di altre isole, l’autore afferma testualmente che “I barbari si tramandano che in una di esse Crono è tenuto prigioniero da Zeus…”. E’ evidente il riferimento alla tradizione orale di quelle popolazioni, che nel mondo greco-romano erano definite barbaroi.
Ora, nel mondo celtico del I secolo d.C. i custodi della tradizione orale erano i druidi, figure complesse di sacerdoti-medici-poeti-intellettuali, che avevano anche un grande peso politico. Quanto poi a Tacito, era genero di Giulio Agricola, il primo governatore romano della Britannia (attorno all’80 d.C.), il quale durante il suo mandato inviò una flotta romana a fare una circumnavigazione esplorativa della grande isola: pertanto lo storico romano potrebbe aver avuto notizie di prima mano direttamente dal suocero riguardo alla tradizione orale del druidismo.
Notiamo anche che il personaggio della dea Calipso, signora di Ogigia, è quello più caratterizzato in senso “celtico” tra quelli descritti nell’Odissea: meta tipica degli immram, i “viaggi” degli eroi celtici, sono infatti le isole paradisiache situate in mezzo all’oceano, nell’estremo occidente – proprio come Ogigia – dove vivono donne divine che rifocillano ed amano gli eroi colà giunti, e possono anche conceder loro l’immortalità e l’eterna giovinezza (che infatti Calipso promette ad Ulisse). Pertanto non è sorprendente che notizie relative a Ogigia, collocata in un arcipelago che in senso lato si può considerare appartenente alle isole britanniche, siano state acquisite dal mondo romano proprio all’epoca della sua massima espansione in quell’area (invece Strabone, nato all’incirca un secolo prima di Tacito e di Plutarco, non visse abbastanza a lungo per intercettarle).

Vi sono eventualmente altri che, nei secoli successivi, abbiano preso in considerazione o citato l’opera di Plutarco, approfondendo le ricerche?
Non lo so, ma non credo: altrimenti Omero nel Baltico lo avrebbe scritto qualcun altro prima di me! Però a questo punto mi sento in dovere di citare una frase di Stuart Piggott, grande archeologo ed accademico inglese, che nel suo Europa Antica afferma testualmente: “La nobiltà degli esametri [di Omero] non dovrebbe trarci in inganno inducendoci a pensare che l’Iliade e l’Odissea siano qualcosa di diverso dai poemi di un’Europa in gran parte barbarica dell’Età del Bronzo o della prima Età del Ferro: non c’è sangue minoico o asiatico nelle vene delle muse greche […] esse si collocano lontano dal mondo cretese-miceneo e a contatto con gli elementi europei di cultura e di lingua greche […] Alle spalle della Grecia micenea si stende l’Europa”.

A questo punto, quale è la sua idea relativamente alla Questione Omerica?
Premesso che il mio lavoro è essenzialmente di carattere geografico, ritengo ragionevole ritenere che i due poemi siano nati, nella versione che noi conosciamo, da un lavoro di rielaborazione e messa per iscritto, allorché attorno al IX-VIII secolo a.C. fu introdotta in Grecia la scrittura alfabetica, di un’antichissima tradizione orale risalente a molti secoli prima, presumibilmente nata nel Nord Europa prima della migrazione dei biondi Achei verso il Mediterraneo – dove fondarono la civiltà micenea attorno al 1600 a.C. – e poi trasmessa di generazione in generazione per molti secoli in terra greca.
Quanto poi alla base di questa tradizione orale, è ragionevole supporre che all’origine vi siano stati due grandissimi aedi, uno dei quali creò una primitiva versione orale dell’Iliade e l’altro dell’Odissea (come emerge dalla coerenza interna dei due poemi, che rende difficilmente credibile l’idea di un’origine a partire da molti aedi diversi).
I due appaiono assai differenti tra loro: il creatore della versione originaria dell’Iliade ha certamente frequentato i campi di battaglia, ha sentito l’odore del sangue e ha provato l’orrore della guerra (e forse, data la sua straordinaria competenza di anatomia umana e di ferite, potrebbe essere stato una sorta di medico militare); di tutt’altra indole era invece colui al quale dobbiamo l’originaria versione orale dell’Odissea, ossia un aedo “da salotto” –  peraltro documentatissimo su leggende e tradizioni forse risalenti ad epoche anche molto più antiche della sua – che forse non si trovò mai impegnato in una vera battaglia.

Nel suo libro parla dell’Optimum climatico, c’è possibilità che questo abbia influito anche sulle correnti marine? Tale studio, supportato anche dalla descrizione dei fenomeni (come la corrente che risale al contrario), la ha aiutata a ricostruire il percorso di Ulisse da Ogigia?
E’ possibile che l’Optimum climatico post-glaciale (altrimenti detto Fase Atlantica dell’Olocene, un periodo, ben noto ai climatologi, che successivamente alla fine dell’ultima glaciazione durò per varie migliaia di anni per poi esaurirsi attorno all’inizio del II millennio a.C., e che fu caratterizzato da temperature medie molto superiori a quelle attuali, al punto da cancellare i ghiacci perenni nell’Artico e le tundre in tutto il territorio europeo) abbia influito sulle correnti marine, ma la mia ricostruzione del percorso da Ogigia alla Scheria si basa inizialmente sulla distanza e sull’orientamento (un “abisso di mare” percorso in direzione est per diciassette giorni prima di incontrare la terraferma), poi sulla direttrice nord-sud (il vento di Borea, cioè del nord, spinge per due giorni Ulisse lungo la costa norvegese, che in effetti scende da nord a sud), poi sulla morfologia della costa (“scogli e roccioni”, a cui corrisponde sia la morfologia di quelle coste, sia il nome stesso di Scheria, affine al nordico sker, “scoglio”), poi sull’alta marea, tipica dell’Atlantico, che inverte il senso della corrente del fiume dove Ulisse approda.
Una conferma viene dall’archeologia: l’area attorno alla foce del Figgjo, il primo fiume che s’incontra a sud della zona dei fiordi, è ricchissima di tumuli dell’età del bronzo e di graffiti rupestri (molti dei quali raffiguranti navi: al riguardo, è significativo che i Feaci siano definiti nausiklytoi, “famosi per le navi”). E che dire del fatto che l’unico arcipelago al mondo corrispondente alla descrizione delle isole attorno ad Itaca, dove i Feaci poi accompagnarono Ulisse, si ritrovi a sud di quell’area, nelle isole danesi del Sud Fionia? Qui è anche identificabile una piccola isola, la più occidentale dell’arcipelago, che ha una topografia perfettamente corrispondente a quella dell’Itaca omerica (a differenza dell’Itaca ionia, che ha sempre lasciato perplessi gli studiosi in quanto non corrisponde affatto alle descrizioni dell’Odissea).

A questo punto viene da chiedersi che tipo di altri ritrovamenti archeologici sono stati trovati. In che modo l’archeologia stratigrafica delle zone del nord Europa conferma la sua tesi?
Invero il mio approccio è stato soprattutto geografico, basato sulle innumerevoli corrispondenze della geografia omerica con il mondo nordico, a cui fanno riscontro le macroscopiche contraddizioni rispetto a quello mediterraneo (solo per fare qualche esempio, pensiamo alle discrepanze tra la morfologia delle omeriche Micene e Calidone e quella delle omonime città greche; all'”impossibile” contiguità, segnalata dall’Iliade, tra l’Argolide e il Pilo; all’apparentemente assurda rotta del ritorno di Agamennone da Troia a Micene per il Capo Malea; alla troppo breve durata della traversata di Telemaco da Itaca a Pilo, a cui fa seguito il suo velocissimo, e sin troppo agevole,  viaggio su un cocchio da Pilo a Sparta “attraverso una pianura ferace di grano” laddove nel contesto greco bisogna oltrepassare impervie catene di monti; all’assurdità dell’Alfeo “che scorre largo per la terra dei Pili”, mentre l’Alfeo greco, il cui letto è oltretutto incassato fra le montagne, sta da tutt’altra parte; alla lontananza degli alleati dei Troiani dalla zona dei Dardanelli; alla singolare vocazione della Ftia a fungere da terra d’asilo per i fuggiaschi; alle differenze fra il pantheon omerico e quello esiodeo; all’introvabilità di popoli come i Feaci e di regioni come la Scheria; alla singolare dieta degli eroi omerici, basata sulla carne di bue e di maiale, mentre sulle loro mense non compaiono mai né olive né fichi; alla grande battaglia che prosegue per due giorni consecutivi fra Achei e Troiani senza interrompersi per l’oscurità, ecc. ecc.: tutte queste, e tante altre, sono contraddizioni che invece nel contesto nordico si risolvono immediatamente). Ciò premesso, anche l’archeologia ci dà le sue conferme: oltre al fatto che l’origine nordica dei Micenei è attestata da precisi riscontri archeologici sul suolo greco, vi sono le tracce lasciate dai Micenei nella cultura inglese del Wessex ed in quella ceca di Unĕtice, precedenti al loro insediamento in Grecia, nonché le analogie riscontrate fra le sepolture micenee e quelle della Russia meridionale. Tutto ciò poi s’inquadra nel più generale discorso delle affinità tra i manufatti egei e quelli dell’età del bronzo nordica; però a questo punto vanno ricordati anche i tumuli dell’età del bronzo ed i graffiti rupestri di navi presenti proprio nell’area della Norvegia meridionale dove, seguendo alla lettera le indicazioni di Omero, erano stanziati i “grandi navigatori” feaci, le rassomiglianze tra l’imponente monumento di Kivik e le coeve manifestazioni dell’arte egea…
E che dire dei numerosissimi tumuli, ancora in gran parte da scavare, nella valle adiacente a Toija, in direzione di Perniö? A chiudere poi definitivamente il cerchio tra il mondo omerico, la civiltà micenea e l’archeologia nordica stanno i reperti provenienti dal sito germanico di Nebra, risalente al 1600 a.C., dove da un lato le spade rimandano ai modelli micenei, dall’altro il disco di bronzo decorato con gli astri d’oro è lo straordinario pendant del firmamento riportato sullo scudo di Achille.
D’altronde, grandi archeologi come Sir Colin Renfrew hanno recentemente mostrato che, secondo le datazioni al radiocarbonio corrette con la dendrocronologia, l’età del bronzo europea, che ha molti punti di contatto con quella greca, non è stata influenzata da quest’ultima perché, a differenza di ciò che si riteneva fino a poco tempo fa, è di vari secoli più antica, non certo più recente. Va infine ricordata una scoperta importantissima, anche se tuttora poco nota: gli archeologi svedesi hanno recentemente trovato nel sito di Bjästamon, sul Golfo di Botnia, i resti di una città, databile addirittura al III millennio a.C., dalla struttura sorprendentemente evoluta.

Adamo di Brema2

La mappa di Adamo di Brema (XI secolo)

Ci sono riscontri della sua teoria nei miti o nel folklore nordico?
A questi aspetti dedico un intero capitolo del mio libro, che sarebbe impossibile riportare integralmente qui: sono infatti numerosissime le convergenze fra il mondo degli Achei e quello dei Vichinghi. Per fare soltanto qualche esempio, penso all’identità non solo tra i nomi, ma soprattutto tra le funzioni, del dio marino nordico Aegir e dell’omerico Aigaion (che ha dato il nome al Mar Egeo); alle corrispondenze, già notate dagli studiosi, tra il dio lituano Dievas (lèttone Dievs) e lo Zeus ellenico o tra la nascita di Elena da un uovo e certi passi del poema estone Kalevipoeg, oppure anche all’equivoco tra remo e ventilabro nella profezia che il tebano Tiresia fa a Ulisse nell’Ade, che rimanda all’iconografia, segnalata dal Dumézil, di un dio làppone che tiene in mano un remo che è anche una pala da grano (d’altronde l’Ade omerico è localizzabile proprio in Lapponia, a cui d’altronde fanno riferimento le saghe nordiche quale sede degli dei inferi). Ma si potrebbe continuare all’infinito; qui aggiungo soltanto che una mappa della Scandinavia di Adamo di Brema (XI secolo) colloca i Ciclopes e una Insula Cyclopum nella Norvegia settentrionale, proprio dove, sulla base di tutt’altre considerazioni, li avevo collocati io; nel contempo, la stessa mappa pone una Terra Feminarum (che lo stesso Adamo precisa essere la “Terra delle Amazzoni”) sulle coste del Baltico e, in effetti, il terzo libro dell’Iliade menziona l’incontro tra le Amazzoni e Priamo, re di Troia, che in base alla mia ricostruzione si trovava proprio in quell’area.

Per la sua ricerca si è dovuto accostare alle lingue nordiche, c’è qualcuno che la ha aiutata sotto il profilo filologico?
Sì, ho avuto supporti e suggerimenti dal centro di ricerca finlandese per i linguaggi nazionali di Helsinki (Kotimaisten Kielten Tutkimuskeskus) e poi da due personaggi che da tempo seguono questa vicenda: il dott. Erik Dahl, norvegese, e Finn Gemynthe Madsen, coltissimo traduttore dell’edizione danese del libro.

Come è stata accolta la sua tesi dai paesi interessati? Le università del Nord Europa si sono già mosse, anche tramite scavi archeologici, per approfondire l’argomento?
Inizialmente le università nordiche si sono mosse con grande prudenza, ma ora le cose cominciano a cambiare, soprattutto dopo l’uscita delle edizioni estone, svedese, danese e tedesca e l’effettuazione di due convegni internazionali in Finlandia, rispettivamente  nel 2007 e 2011. Ad esempio, riguardo alla Lettonia, già diversi anni fa la teoria di “Omero nel Baltico” aveva suscitato l’interesse dell’allora Direttrice del Dipartimento di Filologia Classica dell’università di Riga, Prof. Ilze Rumniece (ora diventata Preside della Facoltà di Lettere di quella Università), che nel 2005 mi invitò a presentarla in un convegno colà svoltosi e successivamente mi ha fatto una lunga intervista, pubblicata sulla rivista culturale lèttone Kulturas Forums.  Nel settembre 2012 sono stato in Danimarca, dove sono stato invitato a presentare la neonata edizione danese in vari luoghi, tra cui nell’isola di Lyø (l’Itaca omerica) ed all’Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen. Più recentemente, l’Ambasciata d’Estonia mi ha organizzato una presentazione della teoria a Gaeta, presenziata dall’Ambasciatore, Sig.ra Merike Kokajev. Quanto all’edizione tedesca, ha finora avuto due recensioni importanti, in cui tra l’altro si leggono le seguenti frasi:

“I have now read your book from cover to cover, and I am deeply impressed. Your geographic and meteorological arguments are very strong, and I anticipate that after the usual period of hesitation, scholars of classical antiquity will accept them” (Theo Vennemann, linguista).

“More and more I am convinced that you will enter the Olympos of science with your extraordinary work and book” (Wilhelm Kaltenstadler, storico).

Infine, visto che abbiamo accennato al mondo accademico, vorrei avere il piacere di menzionare quanto scritto dal Prof. Virginio Giorgio Goggi, prorettore per la ricerca scientifica dell’Università di Pavia, dopo la mia prima presentazione di “Omero nel Baltico” in quella Università:

“Fui molto colpito dalla Sua conferenza in Collegio Ghislieri sia per la innovatività delle Sue ricostruzioni storiche che per la mole di concordanze, veramente stupefacente. L’insieme degli argomenti che Lei propone è certamente tale da scuotere convinzioni profondamente radicate […] Da fisico qual sono, posso ben comprendere il fascino intellettuale irresistibile della tesi non convenzionale, seguita da una fase di scoperte e conferme. Posso solo augurarLe un sempre maggior successo”.

Attualmente sta approfondendo i suoi studi? Cosa ha in programma in un prossimo futuro?
Continuo a lavorare all’approfondimento e affinamento della teoria, in costante contatto con un gruppo di amici accademici sparsi per l’Italia e per il mondo (d’altronde questo è un lavoro di ricerca che, allorché il mondo accademico prenderà direttamente in mano, a mio avviso durerà per decenni se non per secoli, coinvolgendo decine di branche universitarie). Ad esempio, proprio ultimamente insieme con un collega norvegese ho cominciato ad approfondire l’affascinante ipotesi che la “roccia all’unione di due fiumi sonanti”, l’Acheronte e il Piriflegetonte, dove Ulisse compie il rito dell’evocazione dei morti, possa identificarsi con una grande pietra sacrificale preistorica dei Lapponi, situata all’incrocio di due fiordi norvegesi ad oltre 70° di latitudine (e invero non mancano i riscontri, sia geografici che di altro tipo).
Più in generale, va sottolineato il fatto che questa ricollocazione del mondo omerico nel contesto baltico-scandinavo non si esaurisce in un mero cambiamento di scenario geografico, ma è altresì in grado di dischiudere orizzonti ermeneutici finora insospettati, con particolare riferimento ai campi dell’antropologia culturale e delle religioni comparate. Riguardo al futuro, al momento attendo la pubblicazione degli Atti del convegno sull’argomento tenutosi all’Università di Roma La Sapienza il 6 giugno 2012, segno dell’attenzione via via crescente che il mondo accademico dedica alla questione. Inoltre, con un gruppo qualificato di amici geologi stiamo valutando la possibilità di effettuare nella prossima estate ricerche archeologiche mirate nell’area di Toija usando i mezzi più moderni e sofisticati a disposizione della scienza attuale. Insomma, il futuro sembra essere pieno di promesse e, speriamo, di conferme.

In conclusione dell’intervista Felice Vinci ha commentato dicendo:
Vorrei sottolineare il fatto che, al di là della questione omerica, un aspetto fondamentale di questo cambiamento di scenario è la riscoperta dei poemi omerici quali straordinari testimoni di un pezzo importante della preistoria europea, finora pressoché sconosciuto: si tratta dell’età del bronzo nordica, di cui finora avevamo solo monumenti anche imponenti (ad esempio, l’enorme tumulo svedese di Kivik, contenente un grande sarcofago con lastre graffite) e bellissimi manufatti, peraltro assolutamente muti, perché nessuna forma di letteratura ci era pervenuta da quell’epoca (stiamo parlando del II millennio a.C., laddove la letteratura vichinga inizia attorno al 1000 d.C.).
Insomma, l’Iliade e l’Odissea ci permettono di retrodatare di circa un millennio la storia della preistoria dell’Europa! Se poi diamo un’occhiata anche al futuro, è suggestiva l’idea che questo “Omero nordico” potrebbe contribuire ad una nuova idea di unità dell’Europa, basata non più soltanto sull’economia e sulla finanza ma bensì su un’eredità culturale comune, che collega ed unisce in un unico abbraccio i popoli del Nord e del Sud del nostro continente.

Che dire.. le risposte sono state più che esaustive. Non resta che vedere come procederanno le cose, ma, nel frattempo, possiamo rimanere ad immaginare un mondo “meno greco” e più “nordico”. Magari sarà la prospettiva che studieranno sui libri nei prossimi secoli!

 

Ringraziamenti dovuti a:
Enzo Iacobellis che ha permesso questo incontro
Il mio infaticabile nonno, pieno di curiosità.
La mia professoressa di greco, senza la quale non avrei mai conosciuto nulla di tutto ciò.

Credits DT Author Box

Scritto da Laura Cardinale

Scrive da quando è piccola, ha patecipato a vari concorsi e ha pubblicato i suoi articoli su varie riviste (Almanacco CNR, Sole24Ore, Tempo). Ha diretto per due anni il giornale scolastico del Liceo Tasso “Tassocrazia”. La Storia è da sempre la sua grande passione.

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